Alla fine della lettura avremo un quadro completo ed avvincente delle illegalità economiche compiute nel Settecento sui mari della penisola. Il nuovo libro (Carocci Editore) di Paolo Calcagno, professore associato di Storia Moderna all’Università di Genova, è intitolato Fraudum. Contrabbandi e illeciti doganali nel Mediterraneo (sec. XVIII).

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Ho concepito l’idea di questo libro fissando per un momento il frontalino di una filza del fondo Banco di San Giorgio dell’Archivio di Stato di Genova, in cui sono conservati procedimenti giudiziari relativi a casi di illeciti doganali nella Liguria settecentesca. Fraudum (genitivo plurale di fraus): questa parola — nel frontalino seguita dagli estremi cronologici dei documenti contenuti nella filza — mi indusse a pensare che quelle numerosissime, e minuziosamente dettagliate, infrazioni alle dogane potevano offrirmi un punto di vista insolito non solo delle attività commerciali, ma anche lato sensu delle pratiche sociali nel poliedrico universo della gente di mare. (…)

Perché lo sguardo si sia appuntato sullo spazio marittimo è presto detto: le frodi marittime erano più numerose e più consistenti di quelle terrestri. L’11 agosto 1615 l’occhiuto Consiglio dei Dieci della Repubblica di Venezia si era accorto che «moltiplicano in maniera eccessiva li contrabandi per la via di mare»; e in una descrizione anonima di Trapani pubblicata a Palermo nel 1764 si legge che il «malcostume» regnava incontrastato in città, specie «nella gente della marina la quale è pur troppo risoluta ed inclinata ad ogni genere di contrabandi». Gli esempi in tal senso potrebbero moltiplicarsi. (…)

La conclusione è che, non diversamente da quella di oggi, la società della piena età moderna era intrisa di illegalità. (…) Tra l’altro, anche le (ridotte, mal pagate e spesso impotenti) forze di polizia erano colluse con gli autori delle frodi e dei contrabbandi e si facevano facilmente corrompere”. Comunque sia, riuscivano a ispezionare solo una piccolissima parte degli operatori marittimi; e d’altronde ancora oggi nei porti “colabrodo” italiani solo 1’1,5% delle navi viene sottoposto a controllo”. Non si facevano scrupoli di frodare neppure le élite, nobiliari ed ecclesiastiche (si legga delle carrozze dei patrizi genovesi in questo libro), che in questo modo perpetravano gli stessi reati che perseguivano nella loro veste di rappresentanti delle istituzioni.

L’illecito non separava la società dei frodatori dai vertici del potere politico; anzi, spesso le due sfere si confondevano, o collaboravano: come nel caso di quell’appaltatore della privativa del tabacco nel Regno di Napoli, che riscuoteva un dazio su delega e sotto stretto controllo dello Stato, e poi ricorreva ai contrabbandieri per vendere sul mercato il prodotto residuo della propria scorta; mentre gli Inquisitori di Stato (una delle massime istituzioni della Repubblica di Venezia!) autorizzavano i consoli “nazionali” di stanza a Livorno e a Trieste a vendere su quelle piazze merce di contrabbando.

Il fascino di questa storia si deve al fatto che deve essere per forza ricostruita coi frammenti delle estemporanee testimonianze superstiti, ma svela i contorni di un lato importantissimo della vita degli uomini e delle donne dell’epoca. La sfida, a questo punto, potrebbe essere quella di allargare ulteriormente lo sguardo, puntando a ricostruire le direttrici globali dei traffici illeciti: in età moderna l’Europa si connesse con il resto del mondo, e i massicci trasporti di merci miranti a soddisfare i consumi di una popolazione mondiale in crescita (…).

Paolo Calcagno

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